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Come faccio a farmi pagare un logo 35.000 euro?

Periodicamente vedo saltar fuori questo mito del listino prezzi per il graphic design. A memoria è il secondo o terzo che vedo. Niente di ufficiale, per carità: non si può obbligare nessuno ad applicare un tariffario minimo o massimo, sarebbe contro le vigenti norme sulla concorrenza. Ma stavolta è un po' diverso: primo, perché il listino è l'aggiornamento di quello del 1996 firmato Assap (oggi Assocomunicazione); secondo, perché la discussione nata sul blog ADCI è interessante, illuminante e una volta tanto costruttiva.

Ma partiamo dai fatti. Il listino di Assocomunicazione propone tre colonne di prezzo per ogni voce. La prima è l'indicazione originale in lire del 1996. La seconda (MDF: morti di fame) è la semplice conversione da lire ad euro. La terza, è il costo aggiornato al 2015 tenendo conto dei coefficienti ISTAT. Per tutte e tre le colonne, il costo indicato è la base minima di partenza per un'agenzia strutturata.

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Sì, avete letto bene: un logo istituzionale per una piccola azienda parte da 17.500 euro; ma se l'azienda è grande si lavora solo dai 35.000 euro in su. Per un logo di prodotto di larghissimo consumo il costo minimo è di 21.000 euro. Un'immagine coordinata da marchio esistente parte da 2.800 euro. Un freelance, che ha meno costi di un'agenzia, può usare cifre appena più basse. Ma ripeto: questi costi sono basi minime da cui partire.

L'indicazione è chiara: chi si fa pagare 500, 1.000 o 2.000 euro un logo sta sottovalutando il proprio lavoro e sputtanando il mercato della creatività, come fa notare Bruno Banone nel suo commento al post originale:

La cosa che mi meraviglia è che invece di apprezzare la condivisione di un listino minimo e di difendere il costo e del valore delle idee, il popolo creativo che qui leggo, pare demonizzarlo. Che io sappia i clienti seri pagano ancora secondo questo listino che, sebbene scontato del 15% è la base minima per tenere in piedi un’agenzia anche in modalità più che sobria. [...]

Pare che ai creativi faccia schifo parlare di denaro e siano votati al prezzo politico di 1.000 euro per un logo o a farsi stuprare su Zooppa e via discorrendo. Personalmente lavoro per beneficenza in altri ambiti e ritengo questa una professione, non un giochino per nerds e penso che il lavoro vada pagato così come il Cliente fa pagare il suo.

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La discussione sul blog di ADCI

Apriti cielo. Piovono commenti da tutte le parti, ma sostanzialmente possiamo dividerli in due grandi categorie: realisti e idealisti. Hanno entrambi ragione.

L'idealista dice "Può un marchio unico costare meno di un’automobile prodotta in serie?" (Antonio LoConte) e si concentra giustamente sull'educazione al valore del lavoro: "E non diciamoci cazzate, siamo noi a insegnare al cliente o all’agenzia come trattarci e una volta che hai calate le braghe, quella è la nostra posizione di mercato" (Bruno Banone).

Il realista invece replica: "Raga, le vacche grasse sono finite, e già nel '96 stavano finendo" (NonArt); e "La verità è che a forza di lavorare con il linguaggio e la comunicazione, vi state impantanando nello stesso mondo linguistico che vendete per far vendere. State cercando di pompare una convenzione, con scarsi risultati, per cui quei prezzi diventino la norma, la convenzione, entrino nella percezione cognitiva dei clienti del vostro mercato. Ma sapete perché non riuscirete nell'intento? Perché fuori c'è una realtà lontana anni luce dalle vostre parole, dai vostri bei discorsi" (Luca Ingravalle).

Una cosa la possiamo dire: le variabili da considerare sono diverse. C'è una variabile geografica: sud/nord, ma anche Milano/non-Milano, portando la mia esperienza di designer di provincia. C'è una variabile legata al cliente: non metto in dubbio che alcune aziende siano in grado di capire il valore del nostro lavoro e pagare quelle cifre, ma la capillarità delle PMI italiane porta spesso ad avere a che fare con realtà piccole, che ci stanno provando, che magari hanno pure voglia di investire in comunicazione ma non hanno budget. C'è la variabile della dimensione: un freelance non chiede come una piccola agenzia, una piccola agenzia non chiede come un colosso internazionale.

Ciononostante, faccio qui la mia promessa: ritenendo il mio livello qualitativo tutto sommato alto (non solo come risultato: ma come capacità analitica e propositiva, servizio, disponibilità, competenze), da oggi in poi alzerò il prezzo dei miei lavori. Non arriverò a staccare ogni due settimane una fattura da 35.000 euro. Ma da qualche parte dovrò pur cominciare.

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Più educazione

L'ultimo aspetto da non sottovalutare è quello educativo: non solo il designer deve educare il cliente al valore del suo lavoro ("Quando il tuo cliente troppo ingenuo o troppo furbo ti chiede 'Fammi gratis questo, poi vediamo' e tu, freelance o agenzia, gli rispondi: 'Aspetta un attimo: questo è il preventivo da firmare, questo è l'acconto che devi darmi, questo è il saldo, queste sono le condizioni che garantiscono me ma garantiscono anche te', tu stai già regolando il tuo mercato" Gianni Lombardi), ma gli stessi designer devono educarsi tra loro.

Troppo facile accusare il cliente, quando le piattaforme di crowdsourcing scoppiano di presunti professionisti che lavorano per la speranza di vincere un premio. Troppo facile accusare il cliente quando il nipote del titolare ha imparato ad usare una copia piratata di Photoshop, si è stampato i biglietti da visita su Pixart e va in giro a vendere progetti per 50 o 100 euro. Troppo facile accusare il cliente quando la nostra è una comunità piena di invidiosi, di wanna-be, di improvvisatori, di gente che non sa nemmeno scrivere in italiano corretto, di impreparati, di venditori marchettari, di scaricatori folli di template da Shutterstock. 

Ed è qui, credo, che le associazioni di categoria (ma non solo: anche le scuole, le Accademie, le istituzioni stesse) dovrebbero riuscire ad intervenire meglio. Anche perché uno strumento come il listino, come ben insegna la vicenda di AIAP e TP di qualche anno fa, in sé è completamente inutile e non realizzabile in Italia.