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Quanto è importante il packaging per vendere un prodotto? [Intervista]

Essere intervistati è strano. Per un attimo ci si sente dei grandoni ma poi, all'atto di rispondere, ogni parola detta sembra banale, ripetuta, noiosa. Si capirà quello che voglio dire? Avrò risposto in maniera intelligente? Ho davvero qualcosa da dire? Alla fine, tuttavia, lo spirito che muove questo stesso blog vince su tutto: perché non rispondere comunque, con tutta l'onestà di cui si è capaci? Perché non provare a trasmettere la propria pur piccola esperienza, nella speranza che qualcuno la trovi importante, utile, formante (così come io, nella mia vita, ho imparato grandi lezioni da piccole persone)?

È con questo atteggiamento che ho risposto volentieri all'invito di Elisabetta del blog Creme Che Funzionano – sì, appena mi ha contattato ho subito pensato: "Però io e le creme non abbiamo mai avuto niente a che spartire in 36 anni di vita" – che mi ha proposto alcune intelligenti domande sul packaging: quanto incide sull'acquisto? È davvero importante? Il packaging sostenibile è realtà o utopia? Buona lettura!

 

Da quanto tempo lavori nel settore del packaging?

Praticamente da sempre. Ho iniziato ad occuparmi professionalmente di design circa 15 anni fa, e il mio primo lavoro è stato il packaging per delle bottiglie di grappa. Da allora mi sono occupato di vestire i prodotti più disparati: vino, cibo fresco e precotto, integratori alimentari, prodotti per la casa, prodotti farmaceutici e, naturalmente, anche cosmetica. 

 

Ti piace questo lavoro?  

Tutte le mattine mi sveglio con la voglia di mettermi al lavoro; e alla sera – o alla notte, il più delle volte – posso spegnere il computer e andare a letto con un sorriso. Io e la mia famiglia abbiamo il piatto pieno in tavola tutte le sere, abbiamo un tetto sopra la testa e riusciamo anche a fare una piccola vacanza ogni anno. Non credo di poter chiedere di più alla mia vita professionale, oggi.

 

Quali sono le richieste più frequenti da parte dei clienti? 

Beh, ogni cliente ha sempre la sua idea in merito al design. In un mondo perfetto, cliente e designer lavorano insieme, ciascuno con le proprie capacità e peculiarità, partendo da un’esigenza espressa dal cliente e lavorando con le soluzioni proposte dal designer. Non sempre funziona così: spesso un designer deve scendere a compromessi con la visione (non sempre corretta) del cliente. Ma è un rapporto umano come tutti gli altri e, se si instaura un sistema di reciproca fiducia – “è il tuo lavoro, mi fido di te” – insieme si possono fare grandi cose. 

 

Quando si fa un restyling del prodotto, lo si fa perché non va più come prima o perché si vuole seguire la moda? E al cambio di confezione, in genere si associa, che tu sappia, un cambio di formulazione? 

Il restyling di un prodotto già codificato sul mercato è un procedimento delicato. Va fatto con coscienza di causa e sempre in seguito a motivazioni specifiche. Un pack può essere riprogettato perché il prodotto non vende, o non viene visto sugli scaffali, o perché semplicemente ha un design troppo vecchio. Oppure, può essere ridisegnato in seguito ad una riformulazione del prodotto. In tal caso, la fatica è doppia: il packaging non deve semplicemente aggiornarsi per seguire le mode e il mercato, ma deve raccontare il cambio radicale del prodotto. 

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Quali sono le caratteristiche che rendono irresistibile un vasetto o un flacone?  Ci racconti i trucchi del mestiere? 

Non c’è una regola unica, e di certo cambia a seconda di molti fattori: il target, il mercato di riferimento, il tipo di distribuzione, la storia del brand, la comunicazione fatta dall’azienda fino a quel punto. Posso però dire che uno dei fattori che, a torto, si tende a considerare meno è la forma del packaging: una bottiglia particolare, una scatola con una chiusura unica, una soluzione intelligente per il tappo del vasetto, un materiale innovativo, un’incisione, un rilievo. Prima ancora di un’etichetta o un colore, sono questi aspetti ad attirare l’occhio e a rendere il prodotto gradevole. E non dimentichiamo, naturalmente, il fondamentale aspetto dell’usabilità quotidiana: un pack non serve solo a portare un prodotto dallo scaffale del punto vendita alla casa del cliente. Penso soprattutto alla cosmetica: un contenitore andrà usato e riusato, aperto e richiuso più volte, deve garantire la freschezza del prodotto all’interno e restare contemporaneamente integro, solido e facile da utilizzare tutti i giorni. 

 

Quali sono le caratteristiche della confezione che ci fanno risaltare all’occhio un certo prodotto e averne un’impressione positiva ancora prima di averlo provato? Puoi farci qualche esempio? 

La comunicazione non lavora mai a compartimenti stagni. Ogni progetto, non solo di packaging, non può prescindere da quanto e come il brand si sia codificato nella mente del nostro pubblico di riferimento. Sarebbe impossibile parlare di Coca-Cola senza parlare anche della forma della sua bottiglia, riconoscibile tanto quanto il colore rosso o il lettering del logo e, non a caso, usata come silhouette in gran parte delle sue pubblicità. Ma se Coca-Cola cambiasse la forma della bottiglia? Quanto inciderebbe questo cambio di packaging sulle vendite? Poco, credo: perché ormai il brand Coca-Cola si è nidificato nel nostro cervello con una serie di rimandi positivi, e ci vorrebbe molto più di un restyling della confezione per convincerci a non acquistare la bevanda gassata per eccellenza. Per contro, tornando a quanto detto poco fa, un cambio di prodotto è un’iniziativa molto più radicale. Negli anni ’80 Coca-Cola cambiò la ricetta della bevanda per aggiornarsi rispetto a Pepsi, che stava guadagnando importanti quote di mercato. Nacque la New-Coke: durò 78 giorni. L’azienda ritirò dal mercato la New-Coke in seguito alle migliaia di telefonate ricevute, ai gruppi di protesta, alle giacenze in magazzino che aumentavano, considerando che la gente razziava i supermercati per fare scorta della “vecchia” Coca-Cola.

 

È possibile orientare la decisione di acquisto basandosi solo sul packaging?

Partiamo da un presupposto: il packaging, pur bello e funzionale, non può far vendere un prodotto che fa schifo. Può funzionare per un po’, forse, ma nell’era del’ipercondivisione e della informazione diffusa, prima o poi qualcuno farà scoppiare la bolla e la voce su un prodotto pessimo farà il giro del mondo. Una confezione ben fatta attorno ad un contenuto mediocre può farti vendere uno o due prodotti allo stesso cliente. Ma la chiave per il successo è fidelizzare il cliente perché torni sempre ad acquistare il tuo prodotto: e per farlo non basta certo un bel packaging. Il packaging può nascondere alcuni piccoli difetti del prodotto, valorizzarne le positività, attirare l’occhio, raccontare una storia, coinvolgere, emozionare, veicolare il brand. Ma ad un buon packaging devono sempre corrispondere una funzionalità ben studiata e, soprattutto, un buon prodotto. Altrimenti il cliente è perso per sempre. 

 

Nella decisione di procedere all’acquisto, la confezione quanto incide in termini percentuali? Ci sono degli studi in merito ma, insomma, noi vogliamo la voce dell’esperienza.

Ho tra le mani degli studi sul packaging del vino. Il dato è chiaro: l’occhio del potenziale acquirente indugia molto di più sul design dell’etichetta che sui dati del vino. Insomma: l’estetica del packaging vince sulle informazioni tecniche (tipo di vino, abbinamenti, produttore, eccetera). La mia esperienza conferma almeno in parte questi dati: quale che sia il settore, l’occhio dell’acquirente oggi vuole il bello, il gradevole, l’equilibrio estetico, il design. Un packaging curato aiuta a vendere di più, perché coinvolge ed emoziona un cliente prima ancora che lui provi il prodotto. Tuttavia, non è l’unico fattore, e i dati lo dimostrano: hanno la stessa incidenza anche il valore percepito del brand, il prezzo e, come già detto, la qualità finale del prodotto. 

 

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Le aziende si preoccupano anche dell’eventuale smaltimento ecologico dei flaconi che producono, in media? Ci sono aziende che preferiscono una confezione in carta riciclata e materiali biodegradabili rispetto alle confezioni più comuni? Fosse anche per farsi belli con la clientela? Quali sono le tue impressioni? 

Guarda, credo che questa cosa del packaging sostenibile di cui si parla tanto sia in realtà una chimera. Non esiste il packaging sostenibile. Si può parlare, se vuoi, di packaging efficiente sotto diversi punti di vista: l’approvvigionamento delle materie prime, le lavorazioni necessarie, il trasporto, la fine del ciclo di vita di un packaging. Bisogna riuscire ad intervenire su tutti questi ambiti contemporaneamente, e non è facile: un pack può pure essere in cartone riciclato e certificato, ma alla fine produrrà comunque un rifiuto. Una confezione in plastica può essere riutilizzata per altri scopi e ottimizzare la quantità di rifiuti prodotta: ma il processo di lavorazione della plastica causa conseguenze devastanti per l’ambiente. Il vetro ha un alto tenore di riciclo e riutilizzo, ma è un dramma trasportarlo dalle grandi vetrerie alle aziende e infine ai punti vendita. Vedo comunque una attenzione sempre più forte verso questi temi, anche da parte di aziende tutto sommato modeste come dimensioni. Spero che sia una tendenza in crescita, alla quale però deve corrispondere anche un necessario calo dei costi di produzione di packaging alternativi.

 

Sapresti dirci se le aziende di prodotti cosmetici biologici stanno muovendosi rapidamente sul mercato o se ancora non vengono percepite come realtà distinte di un settore specifico? 

Una recente ricerca del Centro Studi e Cultura d’Impresa di Cosmetica Italia ha evidenziato che l’80% dei clienti è consapevole e informata sugli ingredienti contenuti nelle creme cosmetiche; e il 65% preferisce ingredienti naturali. Considerato che i soli prodotti cosmetici per il trattamento viso e pelle in Italia muovono 160 milioni di euro (dati 2013), non si può negare che il mercato per i cosmetici biologici ci sia e sia più che florido. Sta alle aziende imparare la lezione dei prodotti biologici già sul mercato, in particolare il cibo e il vino. Entrambi, dopo l’entusiasmo iniziale, hanno subito un sensibile calo di interesse: i due fattori principalmente responsabili di questo calo sono stati la poca sicurezza sull’effettiva provenienza biologica dei prodotti (anche dopo gli scandali del falso bio in tutta Italia) e il costo, che spesso viene visto come ingiustificatamente alto. 

 

Cosa dice la legge riguardo le diciture da apporre sulle confezioni? In termini di leggibilità, chiarezza? 

Le normative per le diciture sui packaging sono sempre molto ristrette, in tutti i settori. Vincolano sia i contenuti (ad esempio: l’elenco degli ingredienti, i potenziali allergeni, il paese di fabbricazione, l’indirizzo del produttore, il numero di lotto, la tipologia e descrizione del prodotto, la data di scadenza, eccetera), sia la forma (ovvero: le altezze minime dei caratteri e la posizione degli elementi). Chi si occupa di packaging design non può prescindere da queste norme perché, per strano che sembri, i controlli ci sono eccome, a tutti i livelli. Conosco più di un’azienda che è stata obbligata a pagare multe salatissime e a ritirare dal mercato tutti i prodotti già venduti per una dicitura sbagliata. 

 

Cosa ti auguri per il futuro del tuo lavoro? 

Molte cose. Se dovessi indicarne una, sarebbe questa: mi auguro che il governo sia consapevole del valore che creiamo, in termini di ricchezza e lavoro ma anche di estetica, funzione, gusto italiano e innovazione. Sono tempi duri: la pressione fiscale per i freelance è alle stelle e minaccia di aumentare; non abbiamo le sicurezze che hanno gli altri lavoratori; il mercato degli ultimi anni è stato particolarmente duro nei nostri confronti, sia in termini di quantità di lavoro che di qualità. Non vorrei tornare all’epoca d’oro del grande design italiano: è acqua passata, non ci sono più le condizioni. Auspico solo una maggiore responsabilità (da parte di tutti: noi stessi, il governo, i clienti) per ridare dignità, valore ed energie al settore della comunicazione in Italia. 

 

Le immagini arrivano da qui, qui e qui.